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sabato 30 aprile 2011

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

Quando ho aperto questo blog, mi sono detto che mai avrei scritto di Leopardi, per non correre il rischio di ritrovarmi naufrago nel mare del pessimismo o, peggio, di trascinarvi con me dentro il gorgo di un silenzio cosmico.

Solo che poi, ripensandoci, se scrivi di poesia come fai a non parlare di Leopardi? 
Cercherò di comprimerlo in un solo post. Mi riprometto cioè di farlo entrare tutto qui dentro, a forza di spinte e calci e, in questo modo, di confinare l'immenso. Non vorrei cedere al brivido di naufragare nell' anima sua.

Non so se riuscirò a mantenere viva la promessa. Diciamo che è più di un proposito.

Allora, Giacomo è un poeta. Lo presento così, anche perché penso renda l'idea.


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?

Poveretta la luna. Mica l'ha scelto lei il suo destino. Eppure Giacomo, come in realtà fanno in tanti, quando ha qualcosa da dire si rivolge proprio alla luna, che avrebbe altro da fare e invece è costretta a indugiare.

Vergine luna, tale
È la vita mortale.
     Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E` lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.


Pare che Giacomo se ne sia accorto. "Sto parlando a me stesso, che stupido che sono", avrà pensato per un attimo. E invece insiste, e ci spiazza.

 Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
[...] 
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.

Si veste dei panni del pastore, si mimetizza cioè nelle vite degli altri, le persone semplici, il Leopardi. Come è brutto rivolgersi a Giacomo dandogli del "Leopardi". Lui invece si rivolge umilmente -si fa per dire- al suo gregge. Guardate un po' che scrive.

 O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Ha un fascino inenarrabile la vita degli altri esseri viventi. Povero poeta. Lui ci riesce a scrivere della vita, e lo fa pure in maniera intensa, eppure spesso non vive. Che crudele paradosso.

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale


E un pensiero mi assale. Quale prezzo paga per le sue rime?


Basta così. Non mi piace sostare a lungo nella vita di Giacomo.

Sono stanco di sfidarlo in questo braccio di ferro sfibrante, tra bellezza e sofferenza, senza fine.

8 commenti:

  1. Leggendo queste righe mi son tornati in mente i ricordi di quando me li facevan studiare a forza 6 o 7 anni fa.
    quanto lo odiavo, lo studio.
    quanto immatura ero.

    rileggendo adesso hanno tutto un altro sapore.
    grazie a te che li hai postati, grazie a te del piccolo risveglio.
    un saluto da mariana sloggata.

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  2. Leopardi riesce a tirare fuori pensieri molto umani e al tempo stesso più che umani!

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  3. Si mariana, hanno il sapore della vita.

    Stanza, è unico e inavvicinabile con le parole. Ho fatto fatica con questo post. Mi sono sentito a disagio. Il post l'ho riscritto due volte. E ti faccio una confidenza. Non mi piace. Ma credo sia colpa sua.

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  4. Io invece l'ho amato da subito.Si, viveva attraverso gli altri anche se stesso...Qualcosa di contorto ai più , ma necesarrio forse per sopravvivere. Io credo invece tu abbia fatto un bel post. Io spero che Leopardi ovunque sia ,possa avere la netta percezione che il suo passaggio su questa terra non sia stato invano. Ogni giorno qualcuno come te, gli regala l'immortalità.

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  5. anche a me era piaciuto già all'epoca della scuola.....mi sentivo molto vicino a lui....chissà.......

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  6. Nicole: Non so dove sia Leopardi. Se cerchiamo bene lo troviamo in ognuno di noi. A volte c'è di più. A volte c'è di meno. Liberarsi di Leopardi sarebbe come liberarsi di qualcosa che ci appartiene. E' un tentativo vano. Ho provato semplicemente a dargli una sistemazione dentro questo post. Poi lui se ne va dove vuole. Per fortuna. Grazie per il complimento, mi lusinga. Hai presente quei ragazzi che distribuiscono giornali auto-prodotti e che raramente vengono presi sul serio? Ecco, mi sento così col blog. Faccio il mio piccolo per instillare ciò che credo sia importante. Ed il bello è che voi sapete cos'è questa cosa che ritengo importante, senza bisogno che io lo scriva.

    A scuola ero incazzato nero con Leopardi. E con me stesso.

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  7. Fin quando sfidi a braccio di freddo...vuol dire che TEMI...no? :)

    Io Giacomo lo abbraccerei, gli direi che non ha bisogno di essere triste per essere visto da qualcuno.
    Lo avverto simile fin da quando l'ho letto la prima volta, e ho conosciuto la sua storia. Capirlo non vuol dire condividere il "pessimismo", ma forse essere passati da quella "palude", e poi aver trovato altre strategie per uscire e vedere nuovi paesaggi.

    Mi sembra che molti degli scrittori più sensibili (penso anche al mio amato Pavese) abbiano a un certo punto scelto il loro finale, fermato il divenire della loro anima fossilizzandolo in un'idea...che tra l'altro permette di lasciare un carattere definito, un'impronta riconoscibile, nella spiaggia delle idee.
    A un certo punto si sceglie il proprio finale.
    Il suo somiglia a una ginestra.

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  8. TrecceNere: ciò che mi dà fastidio, e che temo, non è la tristezza o il pessimismo. Ma l'esigenza, che avverto anche io e che razionalmente combatto perché stupida -ché in fondo io amo respirare a pieni polmoni-, di rendere poetica la vita, portandola, se necessario, fino alle estreme conseguenze. E questa è anche la ragione per cui odio e amo Pavese. In maniera viscerale.

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