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lunedì 31 dicembre 2018

Cari amici vi scrivo


Viviamo nella vita reale, si sa. Però viviamo anche in questo grande mondo virtuale che sappiamo essere divenuta l'esistenza. Così, volendo tracciare un bilancio di questo 2018, ho scelto, come punto di osservazione, la vita degli altri. Ho dedicato alcune ore del mio riposo a curiosare nelle bacheche di Facebook, nei profili Instagram, e negli account Twitter dei miei amici, e mi sono accorto che di cose importanti, quest'anno, ne sono capitate. 

C'è chi ha deciso di cambiare lavoro, città, vita, e chi ha deciso di impiegare un poco meglio il proprio tempo. C'è chi ha viaggiato un sacco e ha imparato, e chi si è detto comunque contento di essere tornato. C'è chi ha cominciato a studiare seriamente, per dare consistenza alla propria persona, e chi ha deciso di lavorare sodo, per dare consistenza al proprio conto in banca. C'è chi ha scoperto di avere un talento, e chi invece ha capito di non essere tagliato per questo o per quello, ma ciononostante, è rimasto in piedi. C'è chi ha goduto dell'arte e del sesso, quasi allo stesso modo, fugacemente, e chi ha deciso di fare di ogni selfie un vanto, perché ne aveva bisogno capite?, e per questo non merita di essere condannato, ma incoraggiato con un like pieno di affetto. C'è chi ha combattuto battaglie di civiltà, chi ha gridato al mondo che siamo tutti uomini e tutti uguali, chi si è dispiaciuto, indignato, incazzato per questa umanità insensibile che si benda gli occhi per celare alla vista, la propria, il dolore degli altri. E c'è chi ha pianto, non importa se lacrime di gioia o di disperazione, ma ha pianto, si è abbandonato all'emozione e si è riscoperto fragile, proprio per questo, forse, incredibilmente forte. C'è chi ha avuto la gioia di diventare papà, mamme che hanno scoperto abilità che non credevano di possedere, zii e zie, cugine e nipoti, amici che hanno gioito con loro, per questa magnifica esperienza che è, la genitorialita'. C'è chi ha messo il proprio cuore nelle mani di un altro, perché ha scoperto che l'amore è prima di tutto donarsi e oggi è più che mai orgoglioso di averlo fatto. E poi c'è chi invece questo cuore l'ha perso, ma é rimasto comunque grato di aver amato, ché si sa, è meglio amare e soffrire che non aver amato affatto. C'è chi ha subito una perdita, chi è uscito con le ossa rotte da una sfida, chi ha smarrito la speranza, e c'è chi invece ha vinto e ha avuto pure la forza di trascinare questo vecchio mondo con energia, impegno e costanza. C'è chi ha creduto nella poesia, chi ha tradotto questa convinzione in versi, e c'è chi si è adoperato per lasciare al silenzio le emozioni migliori. Infine, c'è chi ha detto che in questi giorni siamo tutti più buoni. Ecco, io a questi non credo, perché se c'è una cosa che ho capito leggendo tra le righe delle vostre emozioni, è che indipendentemente dai pregi e dai difetti che abbiamo, tutti quanti ogni giorno combattiamo per ciò che riteniamo sia il bene. Sapete cosa penso? Tutti quanti siamo sempre buoni. Si, insomma, mi pare che stiamo facendo del nostro meglio. Se dobbiamo augurarci qualcosa, allora auguriamoci, senza paura di mostrarci ipocriti, di continuare così. Sarà la nostra coscienza a renderci felici, o quantomeno a suggerirci quali accorgimenti adottare per essere migliori. 

Cari amici vi scrivo: non abbiate paura di vivere. Questo vi auguro con tutto il cuore per il prossimo anno. Stanotte brinderemo insieme col pensiero. Auguri!





lunedì 24 dicembre 2018

Come ogni vigilia


Chi mi ha seguito in questi anni lo sa. Per me la vigilia di Natale è il giorno più bello dell'anno. Anche quest'anno avrò la fortuna di trascorrere questo giorno con le persone che amo di più, e per questo sono felice. Vorrei trattenere nel mio animo i sentimenti buoni, perché da qualche tempo ho paura che la parola mi porti a disperderli. Per celebrare questo giorno condividerò allora un pensiero di Osho. Decido di farlo in un giorno che è importante per il Cristianesimo, e se lo faccio, è perché l'amore è un sentimento universale, appartiene a tutti, e non credo vi sia un credo religioso che ci insegni ad amare meglio di un altro.

"L'amore non può essere appreso, non può essere coltivato. L'amore acquisito non sarà affatto amore: non sarà una rosa autentica, ma solo un fiore di plastica. Se apprendi qualcosa, significa  che quel qualcosa viene da fuori, dall'esterno, non è frutto di una crescita interiore, e l'amore dev'essere una tua fioritura interiore, se vuoi che sia autentico e reale. L'amore non è acquisizione, ma trasformazione. Non hai bisogno di imparare le vie dell'amore, ma di disimparare le vie del non amore. Occorre rimuovere gli ostacoli, devi eliminarli; a quel punto l'amore è il tuo essere, naturale e spontaneo. Una volta rimossi gli ostacoli, gli scogli che ostruiscono il cammino, tutto riprenderà a scorrere. Benché nascosta dietro un'infinità di rocce, la sorgente dell'amore è già in te: è il tuo stesso essere." (Osho, Innamorarsi dell'amore).

Le parole di Osho sono parole di verità. Crescendo ci scordiamo che cosa sia l'amore. Ciò che vi auguro è di riscoprire in voi l'amore, e di lasciarlo fluire, ché in fondo amare è piuttosto semplice. Liberatevi dal condizionamento dei vostri genitori, nel bene e nel male. Non aspettatevi la perfezione e amate le persone comuni, non c'è nulla di sbagliato nelle persone comuni, sono le persone ordinarie a essere straordinarie nella loro unicità, e per la vostra. Infine, donatevi senza condizioni. L'amore è un dono, mai una pretesa. E' questo che Osho suggerisce perché in noi si realizzi la trasformazione necessaria alla fioritura di questo splendido sentimento che è l'amore, ed è questo che mi sento di suggerirvi.





Che questa sia una sera di miracoli per tutti voi.
Buona vigilia a tutti.


domenica 9 settembre 2018

Lo stile dell'autenticità


Oggi non sono attratto da nulla che non sia autentico. Mi attirano le cinghiate ben assestate sulla schiena, il crepitio dell'olio di una padella, il silenzio che segue a una domanda, il sapore di una pesca matura, la forma di una scarpa usata, il suono di un violino, gli occhi di un anziano, il sole di mezzogiorno che avvampa la pelle, la dignità di un albero, il pianto capriccioso di un bambino, il vuoto di quel nome che la memoria ha perso.

Non ho particolare interesse per il senso delle cose, per i ragionamenti sofisticati, le scritture ampollose, le passioni sociali. Rifuggo la malattia, il dolore, la morte. Provo noia per le intuizioni, le battute intelligenti, le risate alcoliche, i vizi e le virtù delle persone. Ho bisogno di definire le cose, capite?, di attaccarmi a tutto ciò che è reale. Non che il pensiero mi abbia stancato, semplicemente non lo trovo utile. La realtà dei sensi invece, quella mi interessa. Cerco di respirare quanto più a fondo possibile, di liberare le mie orecchie dal frastuono della quotidianità. Mi concentro su ciò che è essenziale. Leggo, tocco, sento. Apro e chiudo gli occhi velocemente, per capire se sogno o son desto. Niente di ciò che vivo col pensiero mi sembra reale, e allora concentro la mia attenzione sui particolari, raschio il fondo delle percezioni, arrivo alla sostanza delle cose. E mi sento vivere.

Se leggo, leggo chi mi sbatte in faccia proprio questa realtà. Senza fronzoli, nuda e cruda, com'è. Se ascolto musica, lascio che a sorprendermi sia qualcosa di nuovo, non ancora udito o intentato. 

Non scrivo qui da un po', e siccome penso che anche un luogo come questo, un blog, abbia una sua sostanza, e che dietro la sostanza delle cose vi sia la sensorialità del tatto, delle dita che sbattono sulla tastiera nel caso specifico, approfitto di questo tentativo di dare consistenza alla pagina per condividere con voi due spunti piuttosto concreti che hanno a che fare con lo stile. 




Lui è Charles Bukowski (interpretato da Ben Gazzara), e di stile se ne intende.




Lei è Martina Attili, e a sedici anni dimostra di avere stile, ammettendo a cuore aperto di soffrire di cherofobia, ovvero  della paura, così comune oggi, di essere felici.




Ecco, forse ho scritto questo post per dirvi, semplicemente, che ha stile tutto ciò che è intrinsecamente autentico. E se siete fatti in un modo che non piacete, e qualcuno vi ha chiesto di cambiare, voi non temete. Siete belli così come siete. 

venerdì 29 giugno 2018

Niels Lyhne e l'amore di Fennimore


Se gli uomini leggessero, se solo si sforzassero di farlo, probabilmente capirebbero che tutte le ragioni della vita che andiamo cercando possiamo ritrovarle nei libri. Se sapessero che i libri contengono le risposte, e che ancor di più contengono le domande, i segnali stradali che ci indicano la via giusta da seguire per non perderci in mezzo alla banalità di questa esistenza, se fossero a conoscenza di tutto questo, probabilmente dedicherebbero le ore più liete della loro giornata alla lettura, e si rifiuterebbero di impiegare il loro tempo utile di solitudine in altro modo. Non tutti i libri sono uguali però, non tutti gli scrittori sono uguali. Dunque non tutti i libri contengono le risposte, e non tutti i libri contengono le domande che sono utili a spaziare col pensiero, ad allargare la mente. Perfino a crescere. 

Alcuni libri intrattengono. Altri spaventano. Altri ancora affannano. Poi ci sono i libri che innamorano, e altri che svelano il tradimento dell'amore. Ci sono i libri che crescono, si, coi loro personaggi, e i libri che affrontano il tempo, con tutte le sue distorsioni e i suoi incanti. Ci sono i libri stupidi e i libri che annoiano. Quelli che informano e quelli che contengono le foto, finestre aperte verso il mondo. Ci sono i libri di poesie, e i libri dei poeti che non scrivono poesie. E poi ci sono i libri che non finisci mai di segnare, perché ti stimolano continuamente, e a ogni riflessione ti portano dentro, sì, proprio dentro di te. Ho letto diversi libri in questo periodo, giacché a volte preferisco farmi cullare dalle onde delle parole piuttosto che farmi ustionare dal sole della realtà. Tra tutti un libro mi è entrato nel cuore.

Jens Peter Jacobsen. A chi dice qualcosa questo nome? "La poesia moderna è spesso nostalgia della vita" scrive Claudio Magris a proposito di ciò che incarna il personaggio di Niels Lyhne, protagonista del libro che sto leggendo, dal titolo "Niels Lyhne", di Jens Peter Jacobsen appunto.

Se dovessi riportare tutti i passi che ho segnato, finirei per scrivere un altro libro, soltanto un po' più breve dell'originale. Dunque mi limiterò a un passaggio, un passaggio delicatissimo, un passaggio che mette a confronto la sensibilità del poeta, e tutta la rabbia di una donna che incarna la verità della sofferenza.

"Hai voglia di litigare con me, vero?"
"No, affatto. C'è solo una cosa che vorrei dirti. Non te la prenderai per un po' di franchezza! Dunque, senti, non ti pare, per esempio, che se un uomo vuole raccontare qualcosa di un po' volgare in presenza di sua moglie, o qualcosa che tu giudichi come una mancanza di riguardo nei suoi confronti, sia un po' insulso da parte tua protestare, mostrandoti esageratamente sensibile e cavalleresco? Non si dovrebbe supporre che il marito conosca sua moglie meglio degli altri e che sappia che può dire certe cose senza infastidirla né offenderla, altrimenti non lo farebbe, non è vero?"
"No, in generale non è vero, ma in questo caso, se lo dici tu, posso anche dire di sì."
"Si, credimi. Stai pur certo che le donne non sono quegli esseri eterei che molti giovani ingenui sognano; non sono affatto più delicate degli uomini, e affatto diverse; credimi, l'argilla con cui furono impastati entrambi era la stessa, un po' sporca."
"Mia cara Fennimore, grazie al cielo non sai quel che dici. Sei molto ingiusta verso le donne, e verso te stessa. Io credo alla purezza della donna."
"La purezza della donna! Cosa intendi per la purezza della donna?"
"Intendo...ecco..."
"Tu intendi... te lo dico io cosa intendi: non intendi un bel niente, perché anche questa è una delle vostre delicatezze assurde. Una donna non può essere pura, non deve esserlo. E come potrebbe? Cos'è questa idea contro natura? E' per questo che è stata creata? Rispondi!...No, mille volte no. Che pazzia è mai questa? Perché con una mano ci innalzate fino alle stelle, mentre con l'altra siete costretti a trascinarci in basso. Non potete lasciarci camminare semplicemente sulla terra al vostro fianco, essere umano accanto a essere umano, e nient'altro? Ci diventa impossibile procedere con passo sicuro in mezzo alla prosa, quando ci avete accecate con i fuochi fatui della vostra poesia. Lasciateci in pace, per amor di Dio, lasciateci in pace!". 
Si sedette e pianse.

In questo frammento Niels parla con Fennimore, una ragazza che ricorda fresca e vitale e che aveva tanto amato prima che lei scegliesse di sposare il suo migliore amico, Erik. Un matrimonio felice e sostenuto dalla forza dell'amore, fino a quando, a un certo punto, le cose cambiano, quando Erik, un artista, perde tutta la sua creatività nel rapporto matrimoniale, vissuto in un fiordo, nella calma dei sensi più assoluta, senza stimoli, e si abbrutisce, di fatto abbandonando la moglie alla sua solitudine. Niels sa che la delusione di Fennimore nasce dal crollo dell'illusione del suo amore e dalla sopraggiunta consapevolezza che il suo venerato Erik, a cui era andata in sposa con tanta gioia, non è che un comune mortale, e la compatisce profondamente.

"... la donna che dal letto di porpora dei sogni è precipitata sul selciato, arriva facilmente a odiare chi voglia stendere su quelle pietre tappeti, poiché, nel suo avvilimento, è proprio quella durezza che vuole sentire, non le basta percorrere la strada a piedi, vuole trascinarsi in ginocchio, e proprio dove la strada è più ripida e le pietre più taglienti. Non vuole aiuti, né mani che la soccorrano, non vuole alzare il capo, lascia che ricada di peso, fin a premere il volto nella polvere e a sentirne il sapore con la lingua."

Adoro questo passo, perché da un lato c'è il poeta, capace di una sensibilità profonda che non sanguina di realtà, e dall'altra c'è la donna che ha amato con tutto il suo cuore e i suoi nervi prima di giungere alla consapevolezza del fallimento. Da una parte l'uomo che in passato ha amato senza essere ricambiato e adesso compatisce. Dall'altra la donna che, schiacciata dalla grandezza del suo amore, decide di non risollevarsi più. Un atteggiamento così appassionato può essere soltanto della donna. L'uomo non può comprenderlo.

Ci sarebbero tante altre cose da dire su questo libro, ma in fondo questo è un post che vuole trasudare di desiderio per la letteratura, ma senza esaurirlo, e per queste ragioni io oggi termino qui.








lunedì 28 maggio 2018

Il cuore sta nel mezzo



Il cuore sta nel mezzo, tra la pancia e il cervello. E un motivo ci sarà.



Ho letto nella mia vita tutta una serie di articoli scientifici che spaziano dalla psicologia fino agli studi più moderni sul microbioma, e più passa il tempo più mi convinco del fatto che l'uomo di oggi in realtà non conosca fino in fondo la sua "sostanza" e non abbia le idee sufficentemente chiare rispetto a quel complesso sistema di interazioni che lo rende un essere vivente e che dipende dal rapporto tra fattori ambientali e fattori genetici, tra sostanze neurochimiche e ormoni, tra microrganismi e fattori immunitari, tra fattori psicologici e stili di vita, tra tutti questi fattori insieme e l'anima, intesa come quella componente invisibile che consente all'uomo di partecipare sul piano delle emozioni al grande movimento del mondo. 

Più passa il tempo dunque più mi accorgo di come ogni individuo sia un universo di costellazioni e galassie, e di quanto sia ingiusto esaurire lo studio dell'individuo allo studio del bene sommo e dell'armonia, del ragionamento, delle passioni e degli affetti, degli istinti e dei comportamenti, delle capacità espressive, dei gesti e delle parole, della scrittura e delle immagini, dell'estetica e delle inclinazioni etiche e morali. Della biologia, della politica e della poesia. Di tutti questi fattori, separatamente.

So bene che l'uomo come essere complesso non può essere studiato, e per questo deve essere necessariamente sezionato, analiticamente valutato, come avrebbero da obiettare alcuni. Mi chiedo però se il modello scientifico sia quello ideale per comprendere l'uomo e le sue innumerevoli sfaccettature, perché ho come l'impressione che stiamo diventando esperti sì, ma esperti del niente. Lo sforzo di comprendere il particolare ci ha fatto perdere di vista l'universale e, quel che è peggio, ci ha portato a elaborare verità parziali. 

Sento parlare gli uomini, li sento convinti di una tesi che si contrappone necessariamente a un'altra di uguale portata e logica, e li vedo impegnati a far prevalere la propria, acriticamente, come se dal prevalere del loro pensiero derivasse il proprio valore. Non c'è vero dialogo, ma tentativo di imposizione di una verità, la propria, per ottenere il potere. Potere su cosa? Potere sul corso degli eventi, sulle scelte politiche ed economiche, e più profondamente ma senza speranza, sullo scorrere inesorabile del tempo.  Sulla malattia. Sulla morte.

Viviamo nell'epoca della crisi delle Istituzioni, di ogni ordine e grado. Né la Chiesa né gli Stati, né tantomeno la Scienza, la Tecnica o l'Economia sembrano in grado di offrire le ricette giuste per la felicità. O per la salvezza. Perfino l'Amore rischia di finire schiacciato sotto il peso delle illusioni che lo alimentano. L'uomo si trova solo più che mai, con la testa piena zeppa di conoscenze ma senza risposte. Di fronte a tutto questo però non si interroga. Lascia che certe sensazioni l'attraversino senza fare il tentativo di acchiapparle. E' disposto ad ammalarsi persino, pur di non riconoscere lo sbigottimento che è alla base del male e deriva dalla mancanza di senso.

Scrivo oggi, e riporto qui dei pensieri che non sono stati partoriti dalla mia mente. Per farlo ho dovuto prima concepire il silenzio, come mezzo necessario a far parlare ogni singola cellula del mio corpo. Ci sono pensieri abortiti, pensieri che non facciamo nemmeno in tempo a mettere insieme a partire dai mattoncini degli stimoli sensoriali perché subito evacuati con le feci. Pensieri che generalmente non possono essere messi per iscritto. Pensieri che "non possono essere pensati", come direbbe un grande studioso di mia conoscenza. In questa pagina ho fatto un esercizio, ho provato a riprenderli dall'intestino con l'aiuto dei geni del mio microbioma (perdonate l'ironia) che li hanno assemblati, e attraverso il nervo vago, a riportarli alla mente, senza però eludere la sorveglianza del cuore. Il cuore ha contributo a dare una coloritura affettiva a questi pensieri che altrimenti non avrebbero avuto alcuna dignità. Perché il cuore sta nel mezzo, tra la pancia e il cervello, e un motivo ci sarà. 

C'è chi ragiona soltanto col cervello, chi con la pancia. Entrambe le tipologie di uomini hanno tutte le ragioni di questo mondo. Ma alla fine è il cuore a decidere quali parole far passare e quali no. Quali pensieri selezionare. Quante emozioni provare. 


A proposito di cuore. Senza che la mia mente abbia potuto impedirlo, oggi la voce di un cantante mi ha rapito. Per un attimo tutte queste domande sul senso della vita hanno perso di significato. Sono riuscito nell'impresa di trattenere le emozioni generate da questa voce, nonostante i tentativi dell'intestino di riportarmi alla realtà. E sapete una cosa? È stato bellissimo.




martedì 3 aprile 2018

Guarire d'amore


Cominciamo con una citazione.



"Immaginatevi questa scena: a tre o quattrocento persone che non si conoscono viene chiesto di formare delle coppie in cui ciascun partner rivolga all'altro una e una sola domanda, ripetuta in continuazione: <<Che cosa vorresti?>>".


Esco per un attimo dalla citazione. Viene descritto un esperimento. In una stanza affollata, una persona chiede a tre o quattrocento sconosciuti di formare delle coppie. Immaginatevi lì. Sì, voi che leggete. Immaginate di avere accanto a voi degli sconosciuti, e di dovere fare coppia con uno di loro. Poi porgete al compagno di ventura una domanda. Lo stesso farà lui con voi: "Che cosa vorresti?". Mi vengono i brividi solo a pensarci.


"Che cosa c'è di più semplice? Una domanda innocente, una risposta. Eppure, tutte le volte questo esercizio di gruppo ha provocato sotto i miei occhi un'esplosione inaspettata di emozioni fortissime. Spesso nel giro di pochi minuti la stanza vibra di tensioni. Uomini e donne - che non sono affatto in condizioni di disperazione o di bisogno, ma al contrario sono persone di successo, perfettamente inserite, ben vestite e brillanti anche nell'immagine - subiscono un profondo sconvolgimento. Si rivolgono a coloro che hanno perduto per sempre - genitori morti o lontani, il coniuge, i figli, gli amici - evocandoli: <<Vorrei poterti rivedere>>, <<Vorrei il tuo amore>>, <<Vorrei poter dire che sei fiero di me>>, <<Vorrei che tu sapessi che ti voglio bene e che mi dispiace non avertelo mai detto>>, <<Vorrei che tu ritornassi...mi sento così solo>>, <<Vorrei l'infanzia che non ho mai avuto>>, <<Vorrei la salute, vorrei tornare giovane. Vorrei essere amato, vorrei essere rispettato. Vorrei che la mia vita avesse un senso. Vorrei raggiungere una meta. Vorrei poter contare qualcosa, essere importante, essere ricordato>>. Quanto volere, quanto desiderare. E quanta sofferenza, così rapida a emergere in superficie da una profondità che dista solo qualche istante. Sofferenza causata dal destino, sofferenza causata dall'esistenza. Sofferenza che non cessa mai di essere presente, al di sotto della membrana della vita, e di lì manda il suo rombo incessante. Sofferenza fin troppo facile da mettere a nudo".

E ancora:

"Tante cose - da una banale esperienza di gruppo a qualche minuto di profonda riflessione, da un'opera d'arte a una predica in chiesa, da una crisi personale a un lutto - ci ricordano che i nostri desideri più profondi non potranno mai essere realizzati: non la voglia di giovinezza né la voglia di fermare la vecchiaia, non la voglia di far ritornare chi se n'è andato per sempre né la voglia dell'amore eterno, della protezione, di una vita che abbia un senso, e tanto meno dell'immortalità. Spesso questi desideri impossibili, questa sofferenza legata a vicende esistenziali, sono causa di un dolore talmente grande da indurci a chiedere aiuto, ai familiari, agli amici, alla religione, talvolta anche agli psicoterapeuti".

Basta, non cito più Irvin D. Yalom e il suo "Guarire d'amore", e vado avanti da solo. Proseguo da quel suo punto finale. Dal bisogno avvertito da un uomo di fronte all'irriducibilità del dolore, di chiedere aiuto. Di fronte ai temi grandi dell'esistenza, al disorientamento, al dolore generato dalla realtà, all'ineluttabilità degli eventi che non possiamo controllare, di fronte a tutto questo, misera oggi appare la soluzione. Chiedere aiuto. Non c'è niente di più logico e banale. Ma chi, mi chiedo, può salvarci dal crollo delle nostre illusioni?

Troppo facile pensare che, al di là di tutto, la vera risposta possiamo ricercarla nell'amore. Be' si, piuttosto comprensibile, di fronte al nonsense della vita, rifugiarsi in quel sentimento che come per incanto risolve tutto, dubbi, contraddizioni, insicurezze. Ma ciò che mi preoccupa di più non è il dubbio se l'uomo possa sopravvivere o meno a una vita senza amore, certamente può farlo, e può farlo senza per forza di cose rispondere alla domanda del "Cosa vorresti?", anzi, probabilmente dovrebbe evitare di porsela perfino, e in questo modo potrebbe andare avanti riempiendo la propria vita di impegni improcrastinabili e idiozie. Ciò che mi preoccupa di più è il verificarsi del caso opposto, ovvero il caso dell'uomo che sceglie l'amore in risposta al quesito del "Cosa vorresti?". Proprio così, mi preoccupa di più l'uomo che sceglie l'amore. Perché?,  vi chiederete voi, in fondo chi sceglie l'amore, grazie all'amore si sente felice. Mi preoccupa per il fatto che l'amore non è mai una scelta consapevole. Mi preoccupa la tendenza dilagante a scivolare nell'amore tipica di chi è in fuga da emozioni dolorose, e allora corre, corre, per mettersi in salvo, ma non ce la fa, e quasi catturato dal nonsense dell'esistenza, a un passo dalla disperazione, scivola sulla buccia di banana dell'amore e senza capirlo si ritrova in uno stato di dormiveglia, in un luogo e non luogo, stordito, in uno stato di beatitudine incosciente, senza nemmeno la forza di aprire gli occhi, intorpidito, anestetizzato, e tutto quel dolore di prima non lo sente più. Mi chiedo che cosa ci sia di nobile in questo trauma cranico che ci ostiniamo a chiamare amore? Mi chiedo che tipo di salvezza possa garantire. No perchè, quando lo stato di intorpidimento finisce, il risveglio è traumatico, e a quel punto si soffre perfino di più.

Mi pare che il più delle volte gli uomini scivolino sull'amore, e che si facciano tanto male. Come guarire da questo dolore? Non parlo del dolore che procura un amore che finisce, no, parlo del dolore della vita, il dolore che ci porta a sbagliare, il dolore che ci fa correre in fuga da noi stessi, il dolore che ci benda gli occhi e che ci fa scontrare, mai incontrare. Come l'uomo possa guarire da questo dolore atavico che si porta dentro, questo mi chiedo. La ricetta è l'amore, mi risponderete ostinati, quello vero. Sì va bene, ma voi a quale tipo di amore state pensando?

Questo è un blog che vuole cogliere il senso poetico dell'esistenza, ma capita a volte di scrivere in un'altra direzione. Mi faccio perdonare, e cerco di recuperare il senso di questa riflessione di oggi citando Jorge Louis Borges. Borges ci esorta a vivere attraverso i fallimenti. Forse non possiamo guarire dal dolore dell'esistenza, ma possiamo certamente riconoscerlo e dargli un senso.



"Con ogni addio impari.
E impari che l'amore non è appoggiarsi a
qualcuno
e la compagnia non è sicurezza.
E inizi a imparare che i baci non sono
contratti
e i doni non sono promesse"



Grazie Jorge Luis compagno d'anima, tu ci metti un secondo.








domenica 18 febbraio 2018

Iniettami in vena l'amore


Facile parlare di dipendenza. Difficile comprenderla. Per capirla fino in fondo, dovremmo essere capaci di riconoscere dentro di noi l'esistenza di uno spazio oscuro, un antro buio, un luogo disabitato, freddo e inospitale che solo chi ha sofferto o soffre riconosce, non come un luogo della coscienza, ma dell'incoscienza, un'area pesante al cuore che non consente di amare.

Dunque, comprende la dipendenza solo chi riconosce dentro di sé uno spazio vuoto. Cosa ha generato questo spazio? E che luogo è? Lo spazio di cui parlo è il luogo creato dalla sofferenza. La sofferenza dell'abbandono, del tradimento, dell'incomprensione, dell'amore che abbiamo riposto nelle persone sbagliate e che si è perso, delle violenze e dei soprusi, dei bisogni non riconosciuti, del latte che avremmo voluto alla bocca e che non era mai abbastanza, delle lacrime, delle guerre e delle domande senza risposta.

La sofferenza di cui parlo è una voragine, una voragine di paura, ansia, diffidenza, disperazione, dolore. Una voragine che genera orrore.

Non è possibile convivere con questa voragine. Prima o poi tutta l' anima per intero vi scivola dentro. Sì, perché la voragine ha le stesse proprietà di un gorgo. Risucchia tutte le energie. Come un buco nero di portata cosmica.

La coscienza, l'essenza di ciò che siamo o percepiamo di essere, la nostra volontà, tenta di rimediare a questa falla. Decide allora di occuparla con qualcosa che ci dia un'impressione di sostanza. Ci prova con l'amore in prima istanza. Il problema è che si rivela presto difficile trovare amore puro. Amore di prima qualità. Amore decontaminato di sostanze tossiche, i pensieri nostri più neri. E allora, piuttosto che iniettarci in vena l'amore, proviamo con la droga. E la droga, lo sappiamo, si prende tutto di noi. In primis, la dignità.

Riporto qui di seguito uno stralcio de "Il quaderno di Maya", di Isabel Allende.


I bagni pubblici erano antri per delinquenti e pervertiti, ma non c'era altra soluzione che tapparsi il naso e usarli, visto che quelli di un negozio o di un albergo erano ormai fuori dalla mia portata, mi avrebbero buttato fuori a spintoni. Non avevo accesso nemmeno ai bagni delle pompe di benzina, perché i dipendenti si rifiutavano di darmi la chiave. Così iniziai a scendere rapidamente i gradini dell'inferno, come tanti altri esseri abietti che sopravvivevano per strada mendicando e rubando per una manciata di crack, un po' di metanfetamine o di un acido, di un sorso di qualcosa di forte, aspro, spietato. Più l'alcol è economico e più è efficace, esattamente quello di cui avevo bisogno [...] non posso rievocare con chiarezza come sopravvivevo, ma mi ricordo bene i brevi istanti di euforia seguiti dalle indegne battute di caccia per trovare un'altra dose.  [...] se avevo soldi compravo tacos, burritos o hamburger che vomitavo subito dopo, in ginocchio, per strada, con interminabili conati, lo stomaco in fiamme, la bocca ferita, piaghe sulle labbra e sul naso, niente di pulito né di bello, vetri rotti, scarafaggi, bidoni della spazzatura, non un solo viso nella folla che mi sorridesse, nemmeno una mano che mi aiutasse, il mondo intero era popolato da trafficanti, tossici, magnaccia, ladri, criminali, puttane e pazzi. Mi doleva tutto il corpo. Odiavo questo corpo di merda, odiavo questa vita di merda, odiavo essere priva di quella merdosa volontà di salvarmi, odiavo la mia anima di merda, il mio destino di merda.

In questo passo Maya ha scelto di vivere in un luogo desolato, lontana dai suoi cari, al freddo dell'indifferenza, strisciante di odio per se stessa e disperazione. Quei bagni pubblici, quei gradini che calpesta fino all'inferno, sono il luogo in cui si riconosce, il luogo che meglio rappresenta il gorgo che si porta dentro. Maya è una ragazza intelligente, che ama scrivere, e intanto è finita lì, stuprata dal suo demone.

Non possiamo comprendere la dipendenza se non capiamo Maya. Maya è l'anima nostra nuda d'amore. Maya è indifesa, fragile. Maya è il fantasma che aleggia nella nostra coscienza. Maya ha paura di affidarsi alle braccia forti di qualcuno. Maya non si fida più di nessuno. Maya è la vita e il contrario della vita. Maya è una storia che nessuno di noi può scordarsi. 

Perdonatemi se vi ho reso tristi. Ma volevo che ciascuno di voi, almeno con la pancia, impattasse la fragilità dell'uomo. La fragilità di Maya può diventare la nostra in qualsiasi momento. Abbiamo bisogno degli altri. Negare questo bisogno, negare di essere naturalmente dipendenti, può portarci alla rovina. 



Negare il nostro bisogno d'amore, non ci farà mai salvi.