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domenica 1 novembre 2020

Vivi e morti

Non c'è una profonda o così netta distinzione tra l'essere vivi e l'essere morti. È esperienza comune infatti sentirsi morti quando si è vivi, e sentire vive, presenti, sempre, delle persone che oramai non ci sono più.

Scrivo per ognissanti piuttosto che per il giorno dei morti, intanto perché mi pare sia un giorno di sospensione, di preparazione quasi alla visita ai defunti, come se i santi che ci proteggono possano metterci in contatto con le persone che non ci sono più, vettori di emozioni, e catapultarci da un giorno in cui la morte viene esorcizzata attraverso riti popolari (halloween), a un altro in cui la morte viene accolta in una dimensione interiore e insieme nello spazio fisico di una tomba (il giorno dei morti).

Scrivo in questo giorno anche perché mi pare non si debba scherzare con la morte. Come se scrivere di morte chiamasse altra morte, e in questi giorni, di virus e negatività, la cosa forse non sarebbe bene accetta.

Non c'è dolore che non venga attutito dalla distanza, sia essa spaziale o temporale, e questo lo sanno bene i vivi. Ma lo sanno anche i morti, se scegliamo siano essi vivi, nel nostro cuore, così che non sappiamo se le emozioni che proviamo siano del tutto nostre o anche un po' loro, essendo l'amore che ci lega una forza contaminante, cellula a cellula, ricordo con ricordo, passione per passione. Gene in ogni singolo gene.

Siamo vivi e morti insieme, carne che si rinnova e deperisce, tempo trascorso e presente, pensiero della fine e desiderio di contatto. Occhi fissi a una foto, lacrime di mistero. 

La foto di ogni nostro congiunto ci ricorda che abbiamo sofferto. E che nonostante tutto, siamo rimasti in vita. 


Ci sottovalutiamo. Pensiamo di non essere capaci di affrontare certi dolori ma poi, alla prova dei fatti, dai meandri inesplorati del nostro organismo emergono minute molecole di sopportazione che si mischiano alle piastrine del sangue e irrobustiscono il corpo e ci fanno sopravvivere, malgrado ogni tentazione di arrendevolezza, come se Natura sapesse quanti dolori può distribuire, conoscesse la portata di ognuno e mandasse il dolore giusto, quello che colma le misure senza affondarle, che noi nemmeno sapevamo di essere così resistenti ma Natura si, Natura sapeva. Ogni uomo soffre il dolore che può. 


Dice bene Astolfo Malinverno, personaggio di "Malinverno" di Domenico Dara, una storia ambientata in un cimitero ma non soltanto. Una storia in cui si uniscono in matrimonio vivi e defunti, e la poesia restituisce un senso alla vita. 

Ogni uomo soffre il dolore che può. 


Domani, se andrete al cimitero, o se ci siete già stati, domani come ieri, o forse oggi, raccogliete dentro di voi tutto il vostro dolore e trasformatelo in amore. Guardate la morte negli occhi senza paura. Ogni giorno è la vostra fine, la nostra. 



Non è un dramma la fine.  Facciamo anche noi parte dell'universo. Siamo di passaggio, non scordiamolo. E sono certo che un giorno, magari in un'altra forma, sapremo essere migliori e più belli di così. 














2 commenti:

  1. Bellissimo post (e bellissima musica). Aggiungerei che senza qualcosa di noi che muoia quotidianamente noi non siamo vivi, perchè la vita richiede che tutti i giorni qualcosa in noi si trasformi, altrimenti regna la morte, cioè uno stato di non trasformazione. La morte è insita nella vita e se non l'accettiamo, siamo morti anche se siamo (formalmente) vivi.

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  2. Dici bene Giorgio. Più che cogliere il significato psicologico del ciclo morte vita quotidiano però, in questo post ho provato a evocare lo stato d'animo di chi impatta la morte nuda e cruda, quando la ritrova negli occhi di una persona che non c'è più...Grazie per le tue attenzioni positive che suscitano riflessioni "trasformative", per così dire.

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